articolo pubblicato in formare a distanza?, C.I.R.C.E., 2020 , pp. 6-15
Carlo B. Milani
Apprendere con strumentazioni digitali è un'esperienza sempre più
comune. Scuola 2.0, università online e formazione a distanza sono
accomunate dall'introduzione massiccia di tecnologie digitali.
Numerosi studi sono stati dedicati all'esplorazione dei cambiamenti in
atto nelle dinamiche di apprendimento strutturato, in particolare con la
nascita di nuovi ambienti formativi ipermediali. A prescindere dalle
generazioni, giovani e meno giovani, di certo la Rete di Internet ha
diffuso pratiche e modelli cognitivi reticolari: siamo passati da una
modalità di apprendimento «gutemberghiana», cioè lineare, basata sul
libro, a una modalità «distrattentiva», di distrazione-attenzione
(messaggiare con un occhio alla lezione e un orecchio alla cuffia),
multitasking, parcellizzata e nonlineare, talvolta cooperativa, che
procede per tentativi ed errori. Alcuni sostengono che i nativi
digitali non hanno bisogno di manuali: provano a giocare con i
manufatti tecnologici e imparano così a usarli, dal cellulare al
computer. Usano i servizi di social networking con tutte le sue app e
dispositivi, per condividere e commentare contenuti (foto, video, audio)
ovvero per comunicare emozioni. Insomma, hanno molto da insegnarci...
forse.
L'argomento mi tocca da vicino.
È vero, non posso definirmi nativo digitale, visto che ricordo
perfettamente l'era dei walkman, che erano davvero analogici...
Ma ricordo bene anche quando le tecnologie digitali sono arrivate nelle
aule scolastiche. Frequentavo il Liceo Classico all'inizio degli anni
Novanta, il professore di fisica e matematica abbandonava di malavoglia
la lezione alla lavagna e ci portava in un'aula attrezzata. Di fatto era
un'aula tradizionale, con un computer ogni due studenti e il docente
costretto a impartire una lezione frontale. Ognuno sul suo PC, facevamo
girare programmini in Turbo Pascal, un linguaggio procedurale che
avrebbe dovuto aiutare noi, inetti ai numeri, a capire meglio e più
velocemente la matematica.
Il web esisteva appena, ma di certo non per la massa; le finestre di
Windows erano lentissime, nel concreto inutilizzabili (e in ogni caso
non molto diffuse), Apple era già una costosa scelta d'élite... ma quei
PC non erano semplici terminali, ed erano in rete fra loro. Nessuno ce
lo disse, allora: probabilmente, nessuno al di fuori dei tecnici
installatori ne sapeva qualcosa. Ma dopo poche visite nell'aula
attrezzata avevamo imparato a entrare nel PC dei compagni (e del
professore), prendendo il controllo della macchina: il cursore apriva
programmi, digitava lettere senza che il malcapitato potesse riprenderne
il controllo. Facendo tesoro dell'esperienza maturata alle scuole medie,
craccavamo i giochini dell'AMIGA 500 su floppy morbidi da 5 pollici e
1/4 e ci sparavamo sessioni videoludiche altamente formative,
infischiandocene del Turbo Pascal.
A loro volta, le lezioni interattive di inglese fecero presto emergere
alcuni specialisti nel sabotaggio audio e video: bastava staccare il
cavo del docente e inserirne uno di un'altra postazione, girare due
manopole sul mixer, ed ecco che la voce della professoressa diventava
quella gracchiante del rumorista di turno, che commentava il video
educativo in un suo inglese maccheronico, fra le risate generali.
Stavamo imparando le nuove tecnologie digitali...
Grazie a questo apprendistato, quando arrivai all'università, a metà
degli anni Novanta, insieme a Internet, diventare «l'esperto» e lo
«smanettone» fu un passaggio quasi banale. Nessuno aveva idea di come
funzionassero quei cosi, specialmente ora che c'erano le finestre e
stava nascendo il Web. I virus erano lo spauracchio dei responsabili
delle biblioteche universitarie. Specialmente nella facoltà di Lettere e
Filosofia dell'Università Statale di Milano. Ancora una volta, quei
computer erano in rete... e prima che la rete d'Ateneo adottasse
qualche minimo sistema di gestione degli accessi, per anni fu possibile
girare tranquillamente fra le macchine dei vari dipartimenti, nei
computer dei docenti e dei funzionari, fino ai terminali SIFA da dove
gli studenti stampavano i propri piani di studio e si iscrivevano agli
esami. Di certo non era difficile cambiare i voti; ma era più divertente
scrivere «viva le banane» sulla homepage di tutti i terminali.
Questo excursus personale vuole sottolineare che senz'altro il divario
fra gli studenti dotati di telefoni furbi degli anni dieci e venti del
XXI secolo e quelli che imparavano a bacchettate è enorme, ma a mio
parere questi presunti nativi digitali non sono poi tanto diversi dai
frequentatori di scuole di tutte le epoche. In fondo, le relazioni di
potere nel contesto scolastico non sono cambiate a causa dell'avvento di
radio e TV. Perché dovrebbe cambiare con Internet?
Certo, la scuola deve cambiare, essere progettata a misura di studente
come uno spazio cooperativo modulare nel quale il docente impara mentre
insegna e il discente spiega mentre entrambi esplorano e creano insieme
un territorio condiviso. Ma non c'è bisogno di ambienti ipermediali né
di tecnologie avveniristiche per immaginare spazi simili. Nel 1970,
mezzo secolo fa, veniva pubblicato Descolarizzare la società di Ivan
Illich, una critica radicale e definitiva dell'istituzione scolastica,
caratterizzata dal rapporto autoritario docente-discente, come unica
risposta legittima ai bisogni formativi. Infatti, costringere gli
allievi seduti nei banchi molte ore al giorno per molti anni della loro
vita, è il miglior modo per omologare le menti attraverso
l'irreggimentazione dei corpi, marginalizzando come «devianti» quelli
che non si adeguano al regime scolastico. O bollandoli come «iperattivi»
da sedare per via farmacologica! E allora avanti con le classi
proattive, gli ambienti fluidi, aperti, accessibili...
Ma in che modo? Nella stragrande maggioranza dei casi si propone di
rendere computer, videoproiettori, lavagne multimediali e così via il
più possibile invisibili, in modo che risultino naturali proprio
come la lavagna e i banchi nell'ambiente-classe, al fine di non
rivestire la tecnologia di un'aura mistica.
L'obiettivo è più che condivisibile, ma il metodo no. La parte
cooperativa della cultura hacker ci insegna che «fare propria» la
tecnologia significa «smontare» le macchine (a livello sia hardware che
software), capirne il funzionamento, rimontarle e riassemblarle per
rispondere al proprio desiderio cognitivo. Non è necessario dissimulare
le macchine, al contrario: è fondamentale rimarcare in ogni momento che
le macchine modificano il nostro spazio cognitivo, in quanto sono
strumenti complessi che tutti noi dobbiamo imparare a gestire.
In questo senso, l'enorme sforzo da parte dei formatori nella
costruzione di LO (Learning Objects) il più possibile conclusi e
parcellizzati, delle specie di pillole di sapere adatte a essere
digerite da classi «distrattente», potrebbe rivelarsi nocivo più che
inutile.
Anche perché se tutto è raggiungibile qui e ora attraverso piattaforme e
servizi in rete, se non si percepisce la differenza tra chattare con gli
amici e chattare con il coach (umano o assistente artificiale che sia)
della classe virtuale che spiega la lezione, diventa quasi impossibile
stratificare conoscenze. Queste attività sono talmente routinarie che
non costano nulla, dunque diventa inutile ricordare e organizzare le
proprie conoscenze: i supporti digitali rendono le informazioni sempre
disponibili, a portata di click.
Ecco il problema fondamentale: lo sforzo richiesto per imparare è
praticamente nullo, perché assistere a una lezione non è diverso che
stare davanti al proprio PC di casa. Non voglio fare l'elogio della
versione di greco, del rompicapo di matematica o dei tomi da migliaia di
pagine, ma sottolineare che (un po') di fatica nell'apprendimento è
essenziale per sviluppare un sapere riflessivo, una memoria capace di
accostamenti imprevedibili e dunque di creatività, insomma per
sviluppare autonomia.
Inoltre, la mia piccola esperienza di «smontaggio, comprensione,
riutilizzo» nelle «classi attrezzate» di quindici anni fa mostra che
ogni momento può essere carico di stimoli cognitivi, insomma formativo,
soprattutto quando gli ambienti sono saturi di tecnologia. Del resto,
come ci ricorda Humberto Maturana, una caratteristica fondamentale degli
esseri viventi è quella di essere sempre immersi in processi di
cognizione e apprendimento. La maggiore esperienza degli insegnanti deve
rivelarsi nella loro capacità di gestire consapevolmente emozioni e
linguaggio nel processo formativo. Insegnare può quindi coincidere in
parte con una ri-mediazione di contenuti; ma non attraverso la
costruzione di pillole di sapere assimilabili come pappa pronta per le
classi multimediali.
Il metodo è contenuto. Ovvero i contenuti non esistono separati da
metodologie di apprendimento. Un esempio banale: invece di spiegare con
slides come funziona il metodo scientifico, si potrebbe smontare un
computer insieme agli studenti e provare a capirne il funzionamento.
Allora le macchine sarebbero tutto fuorché simulacri circondati da un
alone mistico.
E veniamo ai costi. Cambiare radicalmente lo spazio fisico
dell'apprendimento, cioè riprogettare o ristrutturare le classi, è
senz'altro molto costoso. Questo pare un nodo davvero insormontabile per
una scuola che ha sempre meno fondi. Ma forse conta più la possibilità
di disporre di tecnologie appropriate nell'ambiente domestico, quindi un
PC con programmi adatti, conosciuti e utilizzati adeguatamente,
piuttosto che a scuola. Le tecnologie digitali possono essere d'aiuto in
epoche di forzato distanziamento sociale, se sostenute da metodologie
valide. Non sono utili né indispensabili di per sé.
Il mio piccolo aneddoto liceale mostra che il metodo hacker è
sostanzialmente indipendente dalla tecnologia utilizzata. È una
questione di attitudine, non di macchine all'avanguardia. Gli hacker
hanno sempre giocato con la tecnologia, valvole o transistori, andando a
scovare i bug (insetti veri, scarafaggi assai fisici!) annidati fra i
relais. Ri-mediare i contenuti formativi significa allora cogliere gli
spunti contenuti nella realtà psicofisica delle classi reali, e
promuovere un uso attivo e consapevole delle tecnologie. Perché
affaticarsi a organizzare complicati workshop per spiegare a ragazzi
distratti dai loro cellulari come funziona una web-radio, quando
basterebbe forse un microfono attaccato a un PC per scatenare la
meraviglia della voce registrata, la mia voce qui e ora? Magari
sostituendo l'audio di un documentario educational con i commenti
creati al volo. Spesso la connessione non è affatto necessaria, anzi,
genera rumore di fondo.
A chi vuole insegnare tocca il compito, difficile ma entusiasmante, di
inventare nuove modalità di ri-mediazione, senza predigerire i
contenuti, utilizzando le straordinarie potenzialità delle tecnologie
digitali. La soddisfazione di imparare ripaga ogni sforzo, il difficile
è generare la curiosità che spinge all'apprendimento.
Ivan Illich, Descolarizzare la società, Bruno Mondadori, Milano, 1983.
Free download
http://www.altraofficina.it/IvanIllich/Libri/Descolarizzare/descolarizzare.htm
Humberto Maturana, Emozioni e linguaggio in educazione e politica,
Elèuthera, Milano, 2006.
Lewis Mumford, Il mito della macchina, Il Saggiatore, Milano, 2011
Norbert Wiener, Dio & Golem SpA. Cibernetica e religione, Bollati
Boringhieri, 1991
Carlo Bertocchi Milani - C.I.R.C.E. https://circex.org
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